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L’Italia Paese dell’arte, del mare e del sole (anche se, sfortunatamente, dato l’andazzo meteorologico recente, non ne siamo più così sicuri…). Mentre, in verità, la nostra rappresenta una delle nazioni maggiormente montuose del Vecchio continente, con il 35% del territorio occupato dalle catene alpina e appenninica, e un altro ragguardevole 42% caratterizzato da un’orografia collinare.
Quello raccontato da "Le montagne della patria" di Marco Armiero (Einaudi, pp. 256, euro 28) – primo ricercatore presso l’Istituto di studi sulle società del Mediterraneo del Cnr – è, dunque, un pezzo fondamentale dell’identità nazionale, visto alla luce delle narrative della montagna dall’Unità d’Italia a oggi; con l’avvertenza, si premura di specificare l’autore, che non si tratta, però, di un volume di storiografia postmodern di quelli che “smaterializzano” l’oggetto d’indagine trasformandolo in mero elemento discorsivo o simbolico.
La percezione dell’esistenza di una “questione montanara” – tra le tante del Regno… – fu al centro dell’impegno di una frazione del mondo politico-culturale ottocentesco, dal gruppo parlamentare (che operava come una lobby, per usare un’espressione contemporanea) degli “Amici della montagna” al lavoro del Touring Club italiano e del CAI, sino a personalità note quali Edmondo De Amicis, grande alfiere delle virtù dell’alpinismo.
Con una distinzione di fondo, spesso ricorrente, tra gli Appennini e le Alpi. Le prime “montagne ribelli” per antonomasia, spazio di wilderness, ribellione, brigantaggio (che ossessionò gli inizi dello Stato unitario), nonché di eccentricità e irregolarità (basti pensare che, ancora nel corso del Novecento, in varie comunità rurali si temeva la stregoneria). La marginalità caratterizza anche le seconde, fino a che, in occasione della Prima guerra mondiale, vengono convertite nei “sacri confini della patria”, con il montanaro che da individuo selvaggio e ispido, antitesi della civilizzazione urbana, si erge ad alpino ed eroico combattente, garante dell’inviolabilità del nostro territorio nazionale dall’invasione straniera. Poi fu la volta del ruralismo fascista, usato in chiave propagandistica dal regime mussoliniano, delle “montagne nere”, a cui si opposero le “montagne resistenti” dei partigiani. E, nel dopoguerra, il dilagare della narrativa della modernizzazione, tra infrastrutture e centrali idroelettriche, fino al suo tragico epilogo, nel 1963, con la tragedia del Vajont.
Massimiliano Panarari - La Stampa